lunedì 13 febbraio 2017

Como, bambini al confine

L'ingresso della parrocchia di Rebbio, Como
Quaranta chilometri più a nord di Milano, Como si è drammaticamente riscoperta città di frontiera la scorsa estate.

Como è una cittadina di 84mila abitanti, di cui 12mila stranieri regolarmente residenti, 900 richiedenti asilo e un flusso di migranti in transito che attualmente si aggira tra le 300 e le 500 persone. 

Alla stazione di San Giovanni, l'ultima estate, si sono trovati a bivaccare centinaia di migranti che tentavano disperatamente di passare il confine con la Svizzera, per andare a nord.

Secondo l'Amministrazione federale svizzera delle dogane, nel corso del 2016 sono stati 50mila i tentativi di ingresso illegale di migranti in Svizzera, di cui 34mila nel solo Ticino, quasi tutti attraverso la frontiera di Chiasso; 20mila sono stati i respingimenti in Italia. Loro le chiamano "riammissioni": riammessi dove, devono ancora spiegarmelo.

 

Dopo l'emergenza estiva la prefettura ha allestito un campo profughi, gestito dalla Croce Rossa insieme alla Caritas diocesana, da cui sono transitate circa 1800 persone, di cui due terzi minori. In generale, la grandissima parte delle persone si è fermata poco, da qualche ora ad alcuni giorni.

Ma non tutti possono, o vogliono, entrare al campo. Chi non ha i requisiti, oppure arriva dopo le 22.30, orario di chiusura, resta per strada. 
Un gruppo di giovani comaschi, non legati a parrocchie o associazioni, ogni notte fa la spola tra l'esterno del campo, la stazione a cui arrivano molti con l'ultimo treno da Milano, e la frontiera di Chiasso, dove la Svizzera ha appena espulso gli ultimi migranti della notte, raccoglie chi dovrebbe passare la notte all'addiaccio e li porta alla parrocchia di Rebbio, quartiere della periferia di Como.

Lì c'è uno di quei preti di frontiera che aprono le porte e fanno un po' di spazio in più. Si chiama don Giusto della Valle, ed è parroco a Rebbio da sei anni, dopo un'esperienza di missione in Camerun.

Nella piccola cucina della casa parrocchiale, appena riscaldata da una vecchia stufa a legna, c'è un cartello che ricorda l'orario dei pasti, un mappamondo e una mappa dell'Africa.
Perché oltre a don Giusto, in questa casa ci abitano una quindicina di giovani uomini richiedenti asilo.
Nella palazzina di fronte, l'ex casa del vicario, sono oggi ospitate un gruppo di donne nigeriane in protezione umanitaria con i loro bambini (al momento ci sono quattro neonati di pochi mesi di vita) e una famiglia senegalese.

Altri giovani richiedenti asilo hanno alloggio nell'oratorio, in cui sono state ricavate camere e stanze per i corsi di italiano dalle vecchie aule del catechismo. 

Il salone dove viene accolto il "popolo della notte"
«Quest'estate abbiamo iniziato ad allestire una mensa serale nel bar dell'oratorio. Poi è iniziato ad arrivare il “popolo della notte” – racconta don Giusto. – Ogni notte mi portano sessanta, ottanta persone che dormirebbero all'aperto. È un flusso continuo, teniamo la porta aperta fino all'una, le due, diamo un tè caldo e qualcosa da mangiare. Nel salone sopra disponiamo materassi e coperte e assicuriamo almeno un posto al coperto. Al mattino dopo escono, perché qui dobbiamo ripristinare per le attività della parrocchia».

Tra chi passa qualche notte qui, in attesa di ripartire per un altro luogo, molti sono minorenni. Qualcuno è qui da quest'estate, ma per la stragrande maggioranza la parrocchia di Rebbio è stato solo un passaggio.
«Da questa estate ne ho visti passare circa 700.
Il 10% di loro, oggi, è in una comunità per minori in Italia oppure, grazie a un'associazione di avvocati svizzeri, in una struttura dedicata oltre confine».
Al campo profughi della Croce Rossa la situazione è fluida: poco prima di Natale erano oltre 200 i ragazzini che avevano trovato riparo nei container, ma nel giro di alcune settimane sono scesi a qualche decina.
«Una sessantina sono in un campo-bunker a Balerna, in territorio elvetico. Ma gli altri sono andati, da qualche altra parte in Italia, oppure sono riusciti a passare».

Nonostante il confine sia sotto costante controllo da parte degli svizzeri, anche con l'impiego di droni per monitorare i boschi della zona, c'è chi ce la fa. Molti si fanno aiutare dai passatori: alcuni stranieri, altri sono i vecchi contrabbandieri che si sono così riciclati.

«Sono in prevalenza ragazzi eritrei, che lasciano il loro paese a 15 o 16 anni per evitare il servizio militare – racconta don Giusto. – I ragazzi che ho incontrato io non scappano da situazioni particolarmente drammatiche, o peggiori di altre. Quello che è drammatico è il viaggio che fanno. Ci mettono mesi per arrivare fino alla Libia, perché si fermano spesso per fare qualche lavoretto e mettere da parte qualche soldo. Tutti raccontano del deserto, dove ci sono cadaveri abbandonati lungo tutta la strada, la puzza, un cimitero a cielo aperto».
Poi, la Libia, «dove il razzismo nei confronti dei neri è fortissimo. Vengono portati in carcere, lasciati in pessime condizioni, e liberati solo se sono in grado di pagarsi un riscatto».

Quando finalmente sbarcano in Italia, sono organizzati in gruppi: viaggiano insieme, hanno qualche soldo in tasca e vogliono raggiungere un parente in un altro Paese europeo.
«Credono davvero di riuscire ad arrivare in Germania, e lì di potersi trovare una scuola e poi un lavoro. Ma hanno un basso livello di scolarizzazione, non sanno l'inglese: hanno pochissime probabilità di farcela. 
Potremmo aiutarli di più se accettassero di restare in Italia, potrebbero andare a scuola, essere regolarizzati e anche rivedere, un giorno, la loro famiglia – scuote la testa don Giusto – è su questo che lo vedi chiaramente: per molti aspetti sono cresciuti in fretta, ma per altri sono ancora ingenui e bambini».

(Parte del reportage realizzato per Scarp de' tenis e pubblicato sul numero di febbraio 2017)

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