L'ingresso della parrocchia di Rebbio, Como |
Quaranta chilometri più a nord di Milano, Como si è drammaticamente riscoperta città di frontiera la scorsa estate.
Como è una cittadina di 84mila
abitanti, di cui 12mila stranieri regolarmente residenti, 900
richiedenti asilo e un flusso di migranti in transito che attualmente si aggira
tra le 300 e le 500 persone.
Alla
stazione di San Giovanni, l'ultima estate, si sono trovati a bivaccare centinaia di
migranti che tentavano disperatamente di passare il confine con la
Svizzera, per andare a nord.
Secondo l'Amministrazione federale
svizzera delle dogane, nel corso del 2016 sono stati 50mila i
tentativi di ingresso illegale di migranti in Svizzera, di cui 34mila
nel solo Ticino, quasi tutti attraverso la frontiera di Chiasso;
20mila sono stati i respingimenti in Italia. Loro le chiamano "riammissioni": riammessi dove, devono ancora spiegarmelo.
Dopo l'emergenza estiva la prefettura
ha allestito un campo profughi, gestito dalla Croce Rossa insieme
alla Caritas diocesana, da cui sono transitate circa 1800 persone, di
cui due terzi minori. In generale, la grandissima parte delle persone
si è fermata poco, da qualche ora ad alcuni giorni.
Ma non tutti possono, o vogliono,
entrare al campo. Chi non ha i requisiti, oppure arriva dopo le
22.30, orario di chiusura, resta per strada.
Un gruppo di giovani comaschi, non
legati a parrocchie o associazioni, ogni notte fa la spola tra
l'esterno del campo, la stazione a cui arrivano molti con l'ultimo
treno da Milano, e la frontiera di Chiasso, dove la Svizzera ha
appena espulso gli ultimi migranti della notte, raccoglie chi
dovrebbe passare la notte all'addiaccio e li porta alla parrocchia di
Rebbio, quartiere della periferia di Como.
Lì c'è uno di quei preti di frontiera
che aprono le porte e fanno un po' di spazio in più. Si chiama don
Giusto della Valle, ed è parroco a Rebbio da sei anni, dopo
un'esperienza di missione in Camerun.
Nella piccola cucina della casa
parrocchiale, appena riscaldata da una vecchia stufa a legna, c'è un
cartello che ricorda l'orario dei pasti, un mappamondo e una mappa
dell'Africa.
Perché oltre a don Giusto, in questa casa ci abitano una quindicina di giovani uomini richiedenti asilo.
Nella palazzina di fronte, l'ex casa del vicario, sono oggi ospitate un gruppo di donne nigeriane in protezione umanitaria con i loro bambini (al momento ci sono quattro neonati di pochi mesi di vita) e una famiglia senegalese.
Perché oltre a don Giusto, in questa casa ci abitano una quindicina di giovani uomini richiedenti asilo.
Nella palazzina di fronte, l'ex casa del vicario, sono oggi ospitate un gruppo di donne nigeriane in protezione umanitaria con i loro bambini (al momento ci sono quattro neonati di pochi mesi di vita) e una famiglia senegalese.
Altri giovani richiedenti asilo hanno
alloggio nell'oratorio, in cui sono state ricavate camere e stanze
per i corsi di italiano dalle vecchie aule del catechismo.
Il salone dove viene accolto il "popolo della notte" |
Tra chi passa qualche notte qui, in
attesa di ripartire per un altro luogo, molti sono minorenni.
Qualcuno è qui da quest'estate, ma per la stragrande maggioranza la
parrocchia di Rebbio è stato solo un passaggio.
«Da questa estate ne ho visti passare
circa 700.
Il 10% di loro, oggi, è in una comunità per minori in Italia oppure, grazie a un'associazione di avvocati svizzeri, in una struttura dedicata oltre confine».
Il 10% di loro, oggi, è in una comunità per minori in Italia oppure, grazie a un'associazione di avvocati svizzeri, in una struttura dedicata oltre confine».
Al campo profughi della Croce Rossa la
situazione è fluida: poco prima di Natale erano oltre 200 i
ragazzini che avevano trovato riparo nei container, ma nel giro di
alcune settimane sono scesi a qualche decina.
«Una sessantina sono in un
campo-bunker a Balerna, in territorio elvetico. Ma gli altri sono
andati, da qualche altra parte in Italia, oppure sono riusciti a
passare».
Nonostante il confine sia sotto
costante controllo da parte degli svizzeri, anche con l'impiego di
droni per monitorare i boschi della zona, c'è chi ce la fa. Molti si
fanno aiutare dai passatori: alcuni stranieri, altri sono i vecchi
contrabbandieri che si sono così riciclati.
«Sono in prevalenza ragazzi eritrei,
che lasciano il loro paese a 15 o 16 anni per evitare il servizio
militare – racconta don Giusto. – I ragazzi che ho incontrato io
non scappano da situazioni particolarmente drammatiche, o peggiori di
altre. Quello che è drammatico è il viaggio che fanno. Ci mettono
mesi per arrivare fino alla Libia, perché si fermano spesso per fare
qualche lavoretto e mettere da parte qualche soldo. Tutti raccontano
del deserto, dove ci sono cadaveri abbandonati lungo tutta la strada,
la puzza, un cimitero a cielo aperto».
Poi, la Libia, «dove il razzismo nei
confronti dei neri è fortissimo. Vengono portati in carcere,
lasciati in pessime condizioni, e liberati solo se sono in grado di
pagarsi un riscatto».
Quando finalmente sbarcano in Italia,
sono organizzati in gruppi: viaggiano insieme, hanno qualche soldo in
tasca e vogliono raggiungere un parente in un altro Paese europeo.
«Credono davvero di riuscire ad
arrivare in Germania, e lì di potersi trovare una scuola e poi un
lavoro. Ma hanno un basso livello di scolarizzazione, non sanno
l'inglese: hanno pochissime probabilità di farcela.
Potremmo aiutarli di più se accettassero di restare in Italia, potrebbero andare a scuola, essere regolarizzati e anche rivedere, un giorno, la loro famiglia – scuote la testa don Giusto – è su questo che lo vedi chiaramente: per molti aspetti sono cresciuti in fretta, ma per altri sono ancora ingenui e bambini».
Potremmo aiutarli di più se accettassero di restare in Italia, potrebbero andare a scuola, essere regolarizzati e anche rivedere, un giorno, la loro famiglia – scuote la testa don Giusto – è su questo che lo vedi chiaramente: per molti aspetti sono cresciuti in fretta, ma per altri sono ancora ingenui e bambini».
(Parte del reportage realizzato per Scarp de' tenis e pubblicato sul numero di febbraio 2017)
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