lunedì 25 marzo 2013

Fermata: Loreto M1 M2

In corsivo le parti inedite del reportage del viaggio in via Padova 

La 90 accosta alla fermata di piazzale Loreto. Intanto, alle strisce pedonali alle sue spalle, un uomo sui settanta attraversa velocemente e va verso via Padova. È Carlo Bonaconsa, ex preside, ora promotore del comitato cittadino “Vivere in zona 2”, che ha lavorato su uno studio del quartiere di via Padova: hanno censito negozi, edifici, presenze nelle scuole.
@martilarossa
Via Padova
Per questo Bonaconsa ha percorso la via decine di volte negli anni scorsi, parlando con i commercianti, gli abitanti, gli autisti dell'autobus, e ora è in grado di accompagnare chiunque nel quartiere quasi si trattasse di una guida turistica.
Via Padova – quattro chilometri che da piazzale Loreto, quasi centro, si snodano fino a Cascina Gobba, al confine con l'hinterland – è una mescolanza di etnie, di lingue, di immigrazioni vecchie e nuove. Entrare nella via la prima volta dà l'impressione di avere passato un confine: un parrucchiere cinese, un ristorante giapponese, servizi di money transfer egiziani e phone center peruviani. Gli stranieri sono un quarto dell’intera popolazione, e gli italiani sono una delle cinquanta etnie che popolano il quartiere. Ma ci sono, e restano saldamente la maggioranza, a dispetto di chi vuol far credere il contrario. «E non è vero che i negozi italiani stanno sparendo. In via Padova ci sono 438 negozi, li ho contati io – racconta Carlo –. Di questi, solo 101 sono stranieri, per la metà cinesi. I negozi stranieri si notano perché sono molto concentrati nel primo chilometro della via. Tuttavia le attività di maggiore valore economico, come banche, agenzie immobiliari, artigiani, sono tutte gestite dagli italiani».


«Architettonicamente nella prima parte della via, quella che va da piazzale Loreto ai ponti della ferrovia, prevalgono edifici di quattro o cinque piani, solidi e squadrati anche se a volte malconci – illustra il nostro Virgilio –. Ed è proprio su questo tratto della strada che sbucano vie che sono sempre state famose, come via Clitumno, via Arquà, via Chavez».
In via Clitumno, dove qualche settimana fa è stato accoltellato uno spacciatore nordafricano, nei malconci appartamenti sono stipati anche dieci immigrati per volta. «C'è spaccio, c'è prostituzione, è vero. Gli anziani ricordano una via idilliaca di qualche decennio fa che, però, non c’è mai stata: dimenticano che questa è una via di immigrati da sempre –. All'inizio del '900 sono arrivati i contadini alla ricerca di un posto nelle fabbriche del Nord milanese, poi le ondate dei mantovani, dei veneti, fino alle immigrazioni dei pugliesi, calabresi e siciliani che sono subentrati alla malavita locale. – Alcuni raccontano che negli anni '70, di sera, non potevi passare in via Arquà se non eri amico di qualcuno. Oggi la situazione è di poco diversa».
Nonostante questo, via Padova non è il ghetto che molti giornali e politici hanno descritto.


Al civico 69 si apre il polmone verde del quartiere, nonché la scuola più amata dai suoi  abitanti: il parco Trotter, che conta mille studenti, la metà di origine straniera, ventisette etnie diverse.
Studenti della scuola del Parco Trotter
«Organizziamo molte iniziative con l'obiettivo di coinvolgere i cittadini: dal giardinaggio negli orti ai venerdì di lettura per i bambini, dalle feste interetniche ai corsi di italiano per le mamme – racconta Dino Barra, papà e vicepresidente dell'associazione Amici del Parco Trotter – Ci ritroviamo in un contesto in cui il problema dell'integrazione culturale è centrale, ma ci vantiamo di aver raggiunto un alto livello di integrazione, perché le mamme straniere qui sono coinvolte sia come fruitrici sia come organizzatrici».

I commercianti, da parte loro, sostengono come possono le attività dell'associazione, c’è chi espone le locandine degli appuntamenti teatrali e culturali pensando che possano contribuire a una sorta di “bonifica” del quartiere e chi contribuisce col materiale, come il fioraio che lavora lungo la cinta del parco che ha offerto i grembiuli per l’attività di giardinaggio.

Tra chi cerca di cucire esperienze di integrazione, da queste parti c'è anche la cooperativa sociale Comin, che a Milano da più di trent'anni di occupa di dare sostegno a famiglie e minori in difficoltà.
Con le scuole del Trotter, di via Russo e di via Cesalpino hanno messo in piedi un progetto di gemellaggio tra famiglie, grazie a cui chi non ha una rete di amici o parenti intorno può contare su l sostegno di una famiglia vicina di casa o i cui figli sono compagni di classe. Così Marilù, peruviana single con tre figli, ha potuto fare il suo tirocinio al lavoro per alcuni weekend, lasciando i bambini da Anna e Luca, i genitori di un compagno di classe del figlio maggiore, «e ora non solo i bambini si conoscono e frequentano, ma anche io ho degli amici in più – racconta soddisfatta Marilù – credo che conoscersi sia il modo migliore per non aver paura l'uno dell'altro».
Ma se mamme e bambini al Trotter sembrano vivere in una sorta di comunità protetta, arrivati all'età dell'adolescenza i problemi si fanno sentire. «A quell'età emerge la questione dell'identità, tipica dell'adolescenza, ma che per questi ragazzi immigrati a ruota dei genitori, o di seconda generazione, è appesantita dalla dimensione dell'identità etnica – ammette Dino Barra –. Per questo stiamo pensando a delle attività specifiche per loro. Con Modou Gueye, attore senegalese della compagnia Maschere Nere, stiamo pensando a un gruppo teatrale, mentre con Massimo Latronico, direttore dell'Orchestra di via Padova, è nata l'idea di mettere in piedi una “orchestrilla”, una versione baby dell'Orchestra dei grandi».

Chi invece ha più paura di questa società che cambia sono gli anziani. «In via Clitumno siamo rimaste cinque famiglie di italiani su un totale di ottanta appartamenti. Sono vecchia e non ho aiuti, qui la situazione mi fa paura – racconta la signora Lucia. - Devo però dire anche che, quando rientro con le borse della spesa, sono gli immigrati che mi aiutano a portarla su per le scale».
Quello della solitudine è un problema forte in questa zona, dove non ci sono servizi comunali dedicati agli anziani e il fatto che non ci siano caseggiati popolari di proprietà Aler fa mancare anche la risorsa dei custodi e dei portieri sociali, presenti invece in altri quartieri considerati difficili.«Bisogna creare anche dei centri di ritrovo, soprattutto per le donne che restano più facilmente isolate, e in queste settimane faticano a uscire di casa» – osserva Carlo Bonaconsa. Gli uomini hanno i loro punti di ritrovo: i bar e la bocciofila Caccialanza, subito dopo il ponte, dove via Padova torna a essere prevalentemente italiana, e gli edifici di quattro o cinque piani lasciano spazio a un'altra architettura: condomini recenti che si alternano ad antiche villette a uno o a due piani, immobili signorili accanto a caseggiati popolari.

Proseguendo a piedi, poco più avanti Carlo ci mostra la parrocchia di San Giovanni Crisostomo, che oggi raccoglie anche filippini, srilankesi, latinoamericani.  Al catechismo un terzo dei bambini ha origini extraitaliane, anche se sono nati a Milano. L'oratorio, la polisportiva, il doposcuola sono frequentati da cristiani e musulmani. Qui lavora quotidianamente per l'integrazione il giovane vicario don Nicola Porcellini, che ha affiancato per anni, e ora ne prosegue il lavoro, l’ex parroco in pensione don Piero Cecchi. Due preti molto ambrosiani, di quelli con le maniche rimboccate e i piedi in oratorio: «ho contatti con gli insegnanti delle scuole e con il centro di aggregazione giovanile – spiega don Nicola – I ragazzi non si sentono spiati, ma curati, e sanno che il quartiere è come la loro casa. Questo vale per tutti, italiani, cristiani, musulmani, filippini, arabi, latinomericani... Il lavoro di rete è una risorsa davvero importante».
San Giovanni Crisostomo

E, ancora una volta, è la vita quotidiana ad aiutare l'integrazione e la conoscenza, anche tra gli adulti: «Egiziani e latinoamericani, ad esempio, che ai nostri occhi non hanno luoghi di incontro in comune, in realtà spesso lavorano insieme, fanno i manovali fianco a fianco negli stessi cantieri – prosegue don Nicola –. Ed è al lavoro che capisci se una persona è onesta, se è solidale, se è povera come te... Sono i contesti di normalità a cui non pensiamo mai, ma sono quelli che fanno conoscenza, integrazione, permettono di vivere bene insieme». Sul campo dell'oratorio di San Giovanni Crisostomo un gruppo di famiglie boliviane della parrocchia ha organizzato la scorsa estate un torneo di calcio, a cui ha partecipato anche una squadra egiziana, invitata proprio da un collega boliviano. Ma lo stesso campo di calcio è terreno anche di disagio per alcuni italiani della parrocchia: capita quando viene utilizzato dalla comunità islamica per la preghiera del venerdì.
«Se il venerdì cade in festività civili, come il 25 aprile o il primo maggio, la palestra comunale Cambini che la comunità musulmana utilizza abitualmente per la preghiera è chiusa – spiega don Porcellini –. Allora inshallah, se non piove, vengono a pregare sul campo da calcio. Nessuno dei parrocchiani ha mai protestato direttamente, ma sappiamo che serpeggia un po' di disaccordo su questa ospitalità».

La comunità musulmana di cui parla don Nicola ha il suo punto di ritrovo poco più avanti, sullo stesso marciapiede, al 144. Lì, al piano terra di un condominio come tanti altri, senza altro segno all'esterno se non un avviso scritto in italiano e in arabo, si trova la Casa di cultura Islamica: in pratica, la moschea di via Padova. «Noi lavoriamo da decenni per l'integrazione tra i cittadini del quartiere, in collaborazione con le associazioni del territorio e con la parrocchia, teniamo corsi di lingua italiana e araba dall'81, per fare qualche esempio – ci accoglie nella moschea Benaissa Bounegab, algerino da 35 anni a Milano, presenza storica del centro. - Da noi passano 5mila persone ogni venerdì, così per non provocare i disagi accaduti in viale Jenner, per non fare pregare la gente sui marciapiedi e causare intralci al traffico, dal '94 affittiamo per due ore alcune palestre, in modo da decentralizzare i fedeli in più zone». Anche loro hanno un bel da fare per aiutare chi è in crisi: «siamo in un momento economico difficile per tutti e noi gestiamo l’anello più debole: tante persone che erano in regola e ora non hanno più un posto di lavoro ci vengono a chiedere gli spiccioli per vivere – conclude Benaissa –. Abbiamo instaurato una cassa di solidarietà in cui chi lavora mette qualcosa, e così possiamo aiutare con un panino oppure pagare le ricette del medico».

Come tutti gli abitanti della via, Benaissa non nega che spaccio e prostituzione ci siano, «ma come in tutte le altre zone. C’è delinquenza oggi, ma posso dire che c'è sempre stata: sono qui da più di trent'anni e la storia del quartiere l'ho vista e vissuta. Chi era “bassa manodopera” allora, oggi è diventato grossista, e al gradino più basso del giro è subentrato chi oggi è il più povero. Via Padova aveva problemi di delinquenza molto prima dell’arrivo degli stranieri. Ma in questo quartiere, a differenza di altre zone povere che sono solo quartieri-dormitorio, come Quarto Oggiaro o il Giambellino, c'è lavoro, ed è una caratteristica molto positiva».

Lungo la Martesana c'è anche il problema della pista ciclabile che, arrivata all'altezza del ponte nuovo, si interrompe con un dislivello e una scaletta molto ripida in ferro, con buona pace della lotta alle barriere architettoniche. «E poi c'è la piazzetta Vittorelli, l'area in cui il mercoledì fanno il mercato, che ha assolutamente bisogno di ristrutturazione». Più che di una piazza, si tratta di un parcheggio sterrato che diventa un campo di fango quando piove e che ospita persino qualche camion e un paio di giostre.

Prima di entrare in quel che rimane del vecchio borgo di Crescenzago, l'immagine più eloquente di una via che è abituata a veder convivere il disagio accanto alle risorse porta il numero 275: una vecchia corte conosciuta come la “Ca' d'America”, una casa di ringhiera ormai malconcia, cinque piani da un lato, un paio dall'altro e decine di fili di panni stesi, abitata soprattutto da arabi e africani ammassati nei locali diroccati. 
La Fondazione Mantovani
All'entrata mucchi di spazzatura e una portineria vuota, con la porta scardinata, dove qualche anno fa l'ultima portinaia era stata aggredita e violentata. Un paio di ragazzi all'interno, disponibili ma impauriti, fanno capire a gesti e poche parole italiane che la loro presenza lì è tutt'altro che in regola. La proprietaria del complesso è un'anziana ottantenne che vive proprio accanto, in una bella villa di inizio novecento al civico 271.

«Non bisogna dimenticare però che via Padova è ricca anche di risorse artistiche – ci tiene a sottolineare il nostro Virgilio –, come la Fondazione Mantovani, al 36, o l'associazione culturale Villa Pallavicini». 
E soprattutto merita una passeggiata il borgo di Crescenzago, punteggiato di veri e propri gioielli come la chiesa di Santa Maria Rossa e il chiostro adiacente, e come la fila di ville d'epoca al di là del naviglio, dove la Martesana accosta e accompagna la via nell'ultimo mezzo chilometro. Per scoprire un'altra via Padova.

(Reportage del 2010 di Marta Zanella. In parte pubblicato su Scarp de' tenis num. aprile 2010, in parte inedito)

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